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Lobbisti sotto la pioggia

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[Supplemento domenicale del Sole 24 ore, 27 novembre 2011]

Atterrate, e all’aeroporto vi accoglie lo slogan dello shuttle per il centro: «Puntuale come la pioggia belga». E fuori, infatti, piove. Pioverà, a spizzichi, a sprazzi, copiosamente, per i tre quarti del vostro soggiorno, quale che sia la lunghezza del vostro soggiorno. E anche quando non pioverà, quei rari attimi, tutto vi sembrerà, se non proprio bagnato, umido. Il simbolo di Bruxelles è un bamboccio che piscia, e non riuscirete a dimenticarvene nemmeno per un attimo. Nel chiaroscuro del tardo pomeriggio la luce giallastra del logo della Metro, una M con la prima gambetta verticale obesa, vi metterà addosso una strana, irrazionale tristezza. Il vostro albergo è solenne ma un po’ délabré; a cento metri ce n’è uno meglio che costa solo qualche euro di più.

Ma le persone sono tutte gentili. E si mangia così bene – soprattutto molluschi, soprattutto patate fritte – nei ristoranti d’epoca con i muri piastrellati e le piastrelle dipinte con grandi scene kitsch di caccia e pesca. E la casa-museo di Victor Horta, e i palazzi Art Nouveau che ha costruito un po’ dappertutto nel quartiere di Ixelles sono una meraviglia: si potrebbe passare mezza vita soltanto a osservare i loro balconi di ferro, e non sarebbe tempo sprecato. E scendendo dalla città alta verso Notre Dame La Chapelle le stradine sono piene di piccoli deliziosi negozi d’antiquariato: uno vende solo maschere africane, uno solo conchiglie, un altro solo bastoni da passeggio; e cioccolatini, cioccolatini a carrettate, ogni cinquanta metri. «La ditta belga Neuhaus – vi comunicheranno, calcando sul verbo – ha inventato i cioccolatini». E nell’insieme contano anche certi piccoli dettagli grafici. I palazzi liberty più belli sono quasi tutti datati: 1892, 1899, 1903, 1907, come se prima del 1890 Bruxelles fosse una tendopoli. E le targhe agli angoli delle strade hanno tutte due nomi, francese/nederlandese, il che trasmette al passante un’incongrua sensazione di nobiltà: ci vuole un po’ per capire che «Rue Tabellion Notaris Straat» è soltanto Via dei Notai, o che «Rue de l’Aqueduc Waterleidings Straat» è soltanto Via dell’Acquedotto.

Più o meno all’altezza della stazione della metro Louise la vecchia Bruxelles finisce e comincia la zona delle Istituzioni Europee e delle banche. In questa macchia di qualche chilometro quadrato nel centrocittà lavorano torme di parlamentari, assistenti di parlamentari, funzionari, traduttori, lobbisti, stagisti. Una valanga, un esercito, una specie di enclave internazionale che intorno non ha New York o Parigi ma una medio-grande città di provincia, il che genera qualche sproporzione: un terzo degli abitanti di Bruxelles sono stranieri. Lobbisti single sui trent’anni vi diranno, dopo un paio di minuti di conversazione, «Non voglio morire a Bruxelles». Ve lo diranno sorridendo, ma la terza volta che sentirete questa frase, detta da tre persone diverse, comincerete a sospettare che c’è poco da sorridere. I parlamentari, loro, non moriranno a Bruxelles. «Vengono su» due o tre volte al mese, stanno in città due o tre giorni, poi tornano a Milano, Roma, Londra, Madrid. «Tornano ai collegi elettorali», vi spiegheranno. Ma voi vi domanderete invano chi è il parlamentare europeo per cui avete votato, quand’è che avete sentito il suo nome, o lo avete visto in faccia, e insomma vi direte, e gli vorreste dire, che se è per voi che pendola settimanalmente tra Bruxelles e l’Italia può anche risparmiarsi la fatica; e registrerete con triste meraviglia – come per un dispiacere che credevate di aver dimenticato e invece sonnecchiava in un angolo del cervello – la notizia che Iva Zanicchi è parlamentare europea, che Elisabetta Gardini è parlamentare europea, che Ciriaco De Mita è parlamentare europeo, che Magdi Cristiano Allam è parlamentare europeo. Lo sapevate, non è che non lo sapevate: ma, diciamo, non eravate veramente sicuri, non ricordavate con esattezza.

Alle ore 18 vado all’Espace di Monte dei Paschi Belgio per la presentazione del libro di Matteo Lazzarini Eurolobbisti. Come orientarsi a Bruxelles tra lobby e istituzioni europee (Mursia 2011). Ne parlano in cinque: giornalisti, funzionari, lobbisti, eleganti, competenti, articolati. Bruxelles è piccola, vivono qui tutti da tanti anni, si conoscono, si chiamano per nome. È solo in Italia, spiegano, che la parola lobby ha un brutto suono: a Bruxelles, come negli Stati Uniti, è un modo trasparente per fare in modo che i politici ascoltino i cittadini, un modo «per collegare le istituzioni al territorio». Basta, si capisce, che «ci sia correttezza da entrambe le parti». C’è anche un ex parlamentare di sinistra che adesso fa il lobbista per la Confindustria. Dice che tutti, a Bruxelles, difendono un interesse specifico perché Bruxelles è il luogo nel quale confluiscono gli interessi nazionali e aziendali. Dunque tutti fanno lobbying – per una nazione, per un’azienda o un gruppo di aziende, per un sindacato, per una Onlus, non c’è differenza – perciò è giusto che i politici lavorino fianco a fianco coi lobbisti, «soprattutto per averne indicazioni tecniche». Ed è giusto, è naturale che chi arriva a Bruxelles come parlamentare diventi, finito il mandato da parlamentare, lobbista per un’azienda o per un gruppo d’interessi. «Il comitato d’affari della borghesia», cito sottovoce alla mia vicina di destra. «Seeee, magari…», risponde lei, non so se perché è ignorante o perché è un genio.

Sarà così, non ci sarà differenza tra difendere gli interessi dell’Italia e difendere gli interessi, diciamo, della Federlegno; ma il più elegante, competente e articolato degli oratori cita in fretta un paio di documenti interessanti – in fretta evidentemente perché tutti i presenti, tranne me, li conoscono già.

Il primo è il filmato di un dialogo tra due giornalisti del Sunday Times che si fingono gli emissari di un’azienda e il deputato austriaco Ernst Strasser, il quale dice di essere a libro paga di sei aziende (sette, se questo incontro andrà a buon fine) che gli passano 100 mila euro l’anno per fare lobbying a loro vantaggio: «Tra cinque anni avrò il mio ufficio qui a Bruxelles, perché questa è una splendida occasione per conoscere la gente, per avere il mio network per le mie aziende [...], per usarlo quando non sarò più deputato» (Strasser si è dimesso da parlamentare nel marzo 2011).

Il secondo documento è il blog di un altro deputato austriaco, Hans Peter Martin, che ha messo in rete l’elenco dei tentativi di micro-corruzione a cui è soggetto un europarlamentare medio, con una stima approssimativa del loro valore: «Buoni per viaggi di lusso, per cene di gala, per autocollaudi – i lobbisti tentano quasi ogni giorno di sedurre l’europarlamentare indipendente H.P. Martin. Nel giro di una settimana, gli inviti-omaggio hanno superato il valore di 10.000 euro. Contestualmente, sono state fatte pressioni per appoggiare o presentare specifici emendamenti a direttive comunitarie». Segue elenco, e sono per lo più inviti a pranzo, a un cocktail, al cinema; a scorrerlo tutto (Beer Reception, Sandwich Lunch, Photo Exibitions and Cocktails, Breakfast Roundtable) si ha l’impressione che la carica di europarlamentare voglia dire soprattutto mangiare gratis un po’ a tutte le ore del giorno – questo sogno da parvenu – e si ha anche l’impressione che Martin esageri.

Il dibattito prosegue per un’oretta ma a un certo punto qualcuno pronuncia la frase «Bisogna creare strategie proattive a favore del lobbismo creativo», e da quel momento cesso di ascoltare.

Alla fine della presentazione investo dieci euro nel libro di Lazzarini e non me ne pento. Non so dire se sia o non sia originale (la bibliografia è piena di saggi sull’argomento), ma è certamente un libro istruttivo per l’inesperto che sono. S’impara che ci sono circa duemila imprese che fanno lobbying a Bruxelles, e circa cinquemila lobbisti, un piccolo esercito. Dentro c’è un po’ di tutto: grandi banche e grandi aziende, sindacati, federazioni di industriali, agricoltori, allevatori. Ma ci sono anche i Templari o, con più precisione, il Sacro Sovrano Militare Ordine Monastico Dinastico Templare «Mater Nazarena – Pietà del Pellicano»; c’è la House of Europe in Volgograd & Campi Flegrei (tre iscritti, 5000 euro di bilancio annuo); c’è la Sezione di Cosenza del Movimento Federalista Europeo (290 euro di bilancio annuo); c’è il Consorzio Molluschicolo Polesano (p. 57). Che cosa ci faccia questa gente a Bruxelles, in che modo si eserciti la sua attività di lobbying, non è chiaro: Lazzarini spiega che registrarsi come lobbisti significa accreditarsi «a livello internazionale. Un piccolo studio che si iscrive all’elenco dei lobbisti della Commissione compare anche da una ricerca su Google, Bing o Yahoo. Tutta pubblicità gratuita» (p. 56). Sarà, ma quale interesse abbia l’Ordine dei Templari a comparire tra i lobbisti della Commissione su Google resta misterioso.

Che cosa fa un lobbista? Cerca di influenzare le decisioni che vengono prese dalla Commissione e dal Parlamento, per fare in modo che queste decisioni non danneggino gli interessi dell’azienda, dell’associazione o della federazione imprenditoriale per le quali il lobbista lavora. Come lo fa? Marcando stretto i membri della Commissione e del Parlamento, sfruttando il fatto che lui sa come funziona la macchina, mentre gli europarlamentari spesso non sanno neanche perché sono lì: «L’europarlamentare quasi mai ha fatto campagna elettorale. Non serve. Gli elettori sono disinteressati ai temi europei. Una volta eletto entra in una dimensione abbastanza singolare dove i meccanismi, il modo di far politica e le relazioni assumono contorni imprecisi per lui e comunque lontani dal modus operandi del proprio Paese. I lobbisti invece vivono dentro il Parlamento europeo. Da anni. Da molte legislature. Hanno una perfetta conoscenza delle procedure, dei tempi amministrativi, di chi e di come andare a stuzzicare per raggiungere i loro obiettivi» (p. 103). Conseguenza, il lobbista diventa il migliore amico del parlamentare («Un buon lobbista si presenta a inizio della legislatura. Scrive a tutti i deputati: «Dear MEP…»), lo vede dentro e fuori dal Parlamento, non chiede favori ma dà consigli (su cose che il parlamentare mediamente ignora), scioglie dubbi, mette pressione. Conseguenza della conseguenza: «Sono talvolta i lobbisti che scrivono gli emendamenti. Li passano poi all’assistente parlamentare che può anche fare del ‘copia-incolla’ sui formulari ufficiali. L’europarlamentare li firma e vengono presentati in Aula. Senza fare fatica» (pp. 103-4).

Una win-win situation, come si dice, ma non è che la descrizione di Lazzarini lasci proprio tranquilli, ed è un po’ difficile togliersi dalla testa questo dubbio qualunquista: ma se le cose stanno così perché io dovrei pagare lo stipendio dell’europarlamentare, del suo assistente, le trasferte, i francobolli sulle lettere…? Non bastano i lobbisti? Non s’è detto che non fa differenza?


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